Regista tra i meno ‘visibili’ del nostro cinema, Corso Salani è autore di un cinema dell’irresolutezza, persino dell’ambiguità, di cui fa professione anche nelle opere apparentemente leggibili in chiave autobiografica Regista tra i meno ‘visibili’ del nostro cinema, Corso Salani è al contrario tra i più ‘presenti’ nelle sue opere. Sia perché come attore di sé medesimo meno di altri si nasconde nel personaggio, sia perché il suo sguardo ‘che ama le donne’ impone al raccontare i tempi lenti e trattenuti del suo alterno rapportarsi con una estraneità, quella femminile, che accoglie in sé tutti i paesaggi, le lingue, le guerre del mondo. Al punto che, il più delle volte, loro, le donne, e gli altri personaggi, vivono come in uno specchio, creati dal suo sguardo, dalla sua memoria, dal suo fare cinema, dalla sua solitaria meditazione.
L’esordio di Salani nel lungometraggio avviene nell’89, sostenuto dalla Sacher di Moretti, con “Voci d’Europa”: film anomalo (un corto a cui ne vengono assemblati due realizzati in precedenza), cartina di tornasole della crisi del nostro cinema in una stagione che a parte i soliti noti (Nuti e Verdone, Scola e Fellini) non vede italiani tra i campioni d’incasso. Il personaggio uno e trino di Alberto getta le basi per il costante riferimento all’attore Salani: figura non espansiva, piuttosto assorbente, non narcisistica ma vagamente inquietante, vampirica. Tre storie, amori impossibili, finiti o di passaggio, luoghi lontani (Ungheria, Andalusia, Gibilterra) da raggiungere con due soli attori e una troupe ai minimi termini: set e situazioni la cui autenticità colloca subito il film e il suo autore in un’area non commerciale. La distribuzione di “Gli ultimi giorni” (1991), “Gli occhi stanchi” (1995) e “Occidente” (2000) è marginale o inesistente, per non parlare di documentari come “Eugen si Ramona” (1989) e “Cono Sur” (1998).
Sono i Festival (Rimini finché è esistito, Torino, Bellaria, Trieste…) ad accogliere i film di un autore che, nel segno della continuità e della fedeltà a se stesso, ne è quasi ostaggio. “Voci d’Europa” infatti, insieme al corto quasi contemporaneo “Danilo” (protagonista un bambino abbandonato, per un insieme di coincidenze, da entrambi i genitori), che dà lieve spunto narrativo al pudore del regista nell’inventare storie e caratteri, ha dettato il dogma di un cinema dell’irresolutezza, persino dell’ambiguità, di cui Salani fa professione anche nelle opere apparentemente leggibili in chiave autobiografica, documentaristica, politica. La macchina da presa dà forma a un dialogo, intimo e precario insieme, con realtà ‘straniere’ ai margini, ai vertici o oltre i limiti dell’Occidente. Donne con gli occhi stanchi prigioniere del passato. Viaggi, inquieto andare senza un punto di arrivo, nel corso dei quali le attese, i progetti, i sentimenti cambiano continuamente direzione. Memoria che annichilisce il presente e cancella il futuro. Luoghi di confine o in capo al mondo. Occasioni mancate. Voci e silenzi lontani e sempre presenti.
Adelina Preziosi, su Sentieri selvaggi, 1998