Intervista su "Gli occhi stanchi"

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Gli occhi stanchi è il suo terzo lungometraggio, dopo i tre episodi che compongono il film d’esordio Voci d’Europa e Gli ultimi giorni. Qual è stata la genesi del film?

In effetti Gli occhi stanchi è il mio terzo film, ma i primi due li considero come delle prove generali, dei tentativi più o meno riusciti per capire cosa fare. In un certo senso, quindi, Gli occhi stanchi è il primo film vero e proprio, nato e realizzato con un’idea di cinema che fino ad allora non avevo avuto, che avevo solo cercato. Oltretutto, per riuscire a realizzare questo film ci sono voluti cinque anni di attesa, e se, anche sul momento, è stata terribile, a cose fatte mi rendo conto di quanto sia stata necessaria per avere una maggiore maturità, e una presa di coscienza più profonda su quello che volevo fare e come lo volevo fare. E sono serviti anche a mettermi definitivamente da parte come attore protagonista, dedicando tutto lo spazio a una protagonista femminile, cosa che continua ancora oggi. In quei cinque anni una serie di circostanze mi avevano fatto fermare sulla realizzazione di film miei, si erano un po’ intensificate, ma neanche tanto, le richieste come attore e, in un certo senso, mi ero lasciato distrarre dal mio vero interesse. Quindi, alla fine mi sono trasferito per un anno in Argentina, ho lavorato in altre cose e, quando sono tornato, proprio lo stesso giorno, mi sono buttato sulla preparazione de Gli occhi stanchi, che era pronto, almeno sulla pagina, da cinque o sei anni.

 

Gli occhi stanchi è un film molto scritto, eppure sembra scaturire in ogni istante “in diretta” dalle parole, dai comportamenti, dai gesti degli interpreti. Come ha lavorato alla sceneggiatura, scritta, come i due film precedenti, con Monica Rametta?

La sceneggiatura è stata scritta in due momenti distinti: prima c’è stato un periodo lunghissimo in cui avevo scritto da solo il diario, chiamiamolo così, di Ewa, che in realtà era molto più lungo di quanto poi appare nel film. Penso davvero che, se anche Ewa fosse stata una persona reale, non si sarebbe ricordata di così tanti dettagli della propria vita! Poi c’è stato un lavoro di sottrazione, fino a adattare questo diario a una lunghezza adatta al film. E solo dopo è stata scritta la sceneggiatura, con Monica Rametta. Io lo so che le parti al di fuori del racconto di Ewa sembrano improvvisate sul momento, ma in realtà sono state tutte scritte a tavolino, addirittura cinque anni prima. Credo però che l’effetto di realtà che vi si può trovare sia dovuto al fatto che ogni piccolo episodio di vita di troupe sia stato ispirato da episodi reali capitati a me e Monica durante la realizzazione dei primi due film che avevamo fatto insieme, Voci d’Europa e Gli ultimi giorni. E penso anche che chiunque abbia lavorato su piccoli film con piccole troupe possa riconoscere le stesse dinamiche e gli stessi episodi che si trovano ne Gli occhi stanchi.

 

Figura fondamentale de Gli occhi stanchi è quella di Ewa, la protagonista, resa in maniera indimenticabile da Agnieszka Czekanska. Come ha trovato l’attrice polacca?

Agnieszka Czekanska, la protagonista del film, l’ho scelta dopo molti provini che avevo fatto a Varsavia, appoggiandomi a due agenzie di casting. Lei lo sa, quindi lo posso dire, ma sul momento, proprio mentre ero ancora a Varsavia, non pensavo che fosse la scelta più adatta: al provino, che poi in realtà era soltanto una lettura di due dei monologhi di Ewa, mi era sembrata addirittura svogliata e poco interessata. Solo rivedendo le immagini del casting ho capito che quel modo così distaccato sarebbe stato quello giusto per il film, perché non era semplice distacco, ma un dolore e un’umiliazione così profonde che faticavano a essere mostrate. Come avere davanti qualcuno che viene da un altro mondo con cui è difficile, tremendo, riuscire a trovare una linea di comunicazione.  Dopo i provini, in genere, anche se lavori con l’attrice più brava del mondo, rimane il dubbio di avere fatto la scelta giusta, chissà come sarebbe stato il film se avessi avuto un’altra protagonista: ecco, in questo caso io sono ancora convinto di avere lavorato con l’attrice più brava del mondo, e tutti i meriti del film, se ce ne sono, appartengono a lei, per come ha disegnato il personaggio di Ewa.

 

Il film inizia e si chiude, a parte la scena finale sulla spiaggia, con due soggettive dall’interno del furgone che accompagna Ewa e la troupe che la sta filmando da Roma al Mar Baltico. Segno preciso di tutta la sua opera, vale a dire di un cinema soggettivo e in movimento, sempre sospeso tra due, o più, luoghi, tra due, o più, memorie, che vive nell’istante espanso dell’attesa, dell’avvicinamento, della separazione…

Io penso che quelle due lunghe soggettive, proprio all’inizio e alla fine del film, siano una specie di dichiarazione d’intenti, anche se inconsapevole: come ho detto, era il primo film in cui non volevo essere protagonista. E inquadrare quelle strade, a Roma e in Polonia, così a lungo, era un modo per mettermi da parte e non avere tentazioni di protagonismo. Sono cose che penso adesso, sul momento c’era soltanto la voglia disperata di tornare a girare e, dopo il primo giorno di riprese, il desiderio, altrettanto disperato, di non sprecare neppure un secondo al di fuori delle immagini del volto di Ewa. Il resto che mi dice, io lo capisco e lo penso, ma soltanto a posteriori. Mi ci riconosco, e sono anche grato a chi mi fa capire alcune dinamiche che ci possono essere dietro ai miei film. Ma siccome non distinguo la vita reale da quella che vivo nei film, o che faccio vivere, non ho mai il distacco necessario per avere uno sguardo reale su quello che faccio. Però, se mi parla di memoria, e di separazione, le posso confessare che quell’ultima scena sulla spiaggia sul Baltico (che poi è stata anche l’ultima scena che abbiamo girato per il film) è stata, è, e probabilmente sarà la scena più dolorosa da filmare, perché a quel punto Agnieszka era diventata Ewa, e la perdevo, anzi, le perdevo tutte e due,  e quel distacco era il distacco dal film che avevo atteso così a lungo.

 

In quella scena finale, che infatti è una delle più commoventi di tutta la sua filmografia, i protagonisti, al termine del viaggio, camminano sulle dune di una spiaggia invernale del Mar Baltico. Sembrano dei sopravvissuti…

Sopravvissuti… suona molto forte, ma in effetti il sentimento era quello. Ewa alla sua vita in occidente; io, e in qualche modo quella piccola troupe che mi accompagnava, a qualcosa che per i giorni delle riprese era diventata la nostra vita, non c’era stato spazio per nessun’altra vita, per niente, chiusi in un furgone con una ragazza polacca, tutta l’Europa di notte, e poi quella spiaggia con quel vento e quella pioggia. Io lo so che suona sempre retorico, ma d’altra parte mi ritrovo a pensarlo spesso, quindi evidentemente tanto retorico alla fine non lo è, almeno per me: mi ricordo che proprio su quella spiaggia, mentre giravo quella scena di Ewa, e di Agnieszka, che si separa da noi, ho pensato in tutta tranquillità che la mia vita poteva finire in quel momento, soltanto il tempo di finire il ciak, perché quel film ero riuscito a farlo e la mia vita avrebbe avuto comunque senso.

 

Nel film c’è anche uno strato di umorismo, lampi presenti in certe situazioni che coinvolgono Alberto, il personaggio da lei interpretato, e gli altri membri della troupe…

Effettivamente la vita abbastanza sgangherata che mostra la troupe nel film corrisponde esattamente a quella che viveva la vera troupe che stava realizzando il film. E non mi stupisce più di tanto il fatto che, in realtà, anche quelle scene di vita al di fuori del racconto di Ewa erano state scritte e poi sono state, diciamo così, recitate su un testo già molto definito. Perché, appunto, tutti quegli intermezzi erano stati ispirati dai ricordi della lavorazione dei primi film, e perché, soprattutto, la troupe che stava realizzando il film era la stessa che appariva in scena. Quindi dinamiche, rapporti, discussioni e momenti di ironia erano vissuti in diretta, con l’unica variante della telecamera accesa. E quel disagio imbarazzato di quei quattro uomini davanti alla prostituta Ewa era lo stesso che i quattro uomini della troupe, io per primo, provava davanti alla presenza dell’unica donna che viaggiava con noi, Agnieszka, che, lo posso dire dopo tutti questi anni, non faceva niente per metterci a nostro agio: molto riservata, silenziosa e distaccata.

 

La voce e le parole hanno un ruolo fondamentale. Lei usa la sua voce, in oversound, per tradurre quel che Ewa dice nelle scene in cui la donna racconta, in polacco, la propria vita alla troupe che sta facendo il documentario su di lei. Mi sembra che questa scelta vada oltre la semplice intenzione di aderire ai codici del documentario per assumere una forma più intima, anche in questo caso, più soggettiva, di esplorazione di un’esperienza.

Questa della mia voce a tradurre la voce di Ewa è una cosa che in effetti ho visto che è stata notata spesso. Non saprei dire il motivo teorico, se mai ce n’è uno, per cui ho fatto questa scelta. In effetti sarebbe stato molto più normale, diciamo così, utilizzare una voce femminile italiana, o perfino usare i sottotitoli. Però Gli occhi stanchi è stato, ed è, per me un film molto particolare, in cui già mi era costato molto far lavorare altre persone oltre a me e l’attrice che avevo scelto. Mi ricordo di avere avuto, nei confronti del film, un senso di possesso, e di conseguente gelosia, così feroce che solo l’idea di far partecipare qualcuno esterno mi pareva una violenza insopportabile. Credo davvero che la decisione di usarmi come “doppiatore” di Ewa sia stata presa proprio per questo motivo, sul momento inconsapevole e anche inconfessabile. A mente fredda può sembrare banale e infantile, ma per fortuna i film sono l’occasione adatta per provare tutti i sentimenti che di solito nella vita normale si ha paura a provare, quindi, come dire, nessun rimpianto! Anche perché, alla fine, penso che, nell’equilibrio del film, quella della voce sia stata una scelta più che giusta.


Intervista di Giuseppe Gariazzo, dal libro "CONVERSAZIONI, il cinema nelle parole dei suoi autori" Lineadaria Editrice

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